Chiara Muti è la regista di Dido and Aeneas di Henry Purcell che va in scena nella suggestiva cornice della palestra occidentale delle terme di Caracalla a Roma (quattro recite a partire dal 13 giugno alle 21.30). Di seguito l'intervista contenuta nel programma di sala.
Chiara Muti è un’attrice intelligente e sensibile che durante una carriera generosa di successi ha compiuto sempre scelte interessanti, sia in teatro che in cinema, puntando a ruoli non prevedibili, a percorsi avventurosi e a sperimentazioni che hanno messo in luce il suo talento multidisciplinare e la sua spiccata musicalità. Risale all’anno scorso il suo debutto nella regia operistica, con l’allestimento al Ravenna Festival di un’opera impegnativa e “femminilissima” come “Sancta Susanna” di Hindemith. Chiara Muti l’ha affrontata con un rigoroso senso della musica, un approfondito lavoro sugli interpreti e una lettura inventiva e poetica. Ora torna al ruolo di regista per montare, nella cornice impressionante delle Terme di Caracalla, l’opera seicentesca “Dido and Aeneas” del compositore inglese Henry Purcell.
“Uno spettacolo all’aperto terrorizza ogni regista”, confessa, “perché immette in una situazione in cui non si può controllare appieno la pulizia delle luci. D’altro canto, lo spazio della Palestra dei Gladiatori di Caracalla è di straordinaria suggestione: vi si respira la Storia con la maiuscola... Perciò bisogna rispettarlo e far sì che il luogo viva di se stesso, senza sovrapposizioni scenografiche che ne disturbino la natura”.
Quale sarà quindi l’ambientazione della regia?
“Una semplice pedana circolare rappresenta il tempo che gira, così come girano le lancette nel quadrante di un orologio. Mi ha spinto verso questa scelta la velocità della trama di “Dido and Aeneas”, dove gli eventi si susseguono in modo frenetico. Dall’amore dei due protagonisti al suicidio di Didone che chiude l’opera, è come se il destino accerchiasse i personaggi con rapidità bruciante. Il tempo corre azionato dal fato, che in Purcell è raffigurato dalle streghe”.
Cioè da creature in arrivo da dimensioni malefiche…
“Malefiche, sì, ma anche ironiche, il che è tipico del teatro inglese, dove le sfere del fantastico sono narrate sempre con un’inclinazione al comico. E’ la risata che s’insinua nella tragedia, è lo scherzare sulla rovina degli altri. C’è humour, per esempio, nelle maligne apparizioni di tanto teatro shakespeariano, legate a un mondo incontrollabile e impalpabile di elfi, folletti, maghi e stregonerie. Basti pensare al “Sogno di una notte di mezza estate” e a “La Tempesta”. Inoltre, essendo lo spazio di Caracalla completamente aperto, senza entrate né uscite, il coro dev’essere sempre presente con funzione di commento, come nel teatro greco. E allora ho pensato di convogliare i vari livelli culturali che alimentano la bellezza di quest’opera dando al coro volti differenti”.
Quali?
“A tratti sembra un gruppo di cortigiani del Seicento, fantasmatici e illuminati da fiaccole. Visione che, abbinata alle rovine di Caracalla, fa immaginare i primi viaggiatori inglesi che a fine Seicento cominciarono a far turismo visitando le vestigia dell’antica Roma. Ma il coro, nei vari passaggi, può diventare anche il mondo della maschera greco-romana e quello dei lazzi della commedia dell’arte”.
Prima accennava alle culture che convergono in quest’opera. Cosa intendeva dire?
“Purcell, in “Dido and Aeneas”, è riuscito a fondere certe caratteristiche del lirismo italiano (ricorda l’opera italiana nelle arie e nel respiro complessivo) con la cultura musicale francese (Lully, le musiche e le danze di corte, le marce) e l’asciuttezza del teatro inglese, dove non c’è mai compiacimento e tutto scorre al servizio del dramma. Con quest’operazione di assemblaggio, Purcell ha definito il primo stile di barocco inglese, nell’ambito del quale “Dido and Aeneas” spicca come un capolavoro assoluto”.
L’acceso dinamismo del racconto condiziona la regia?
“Sì, molto. Nello spettacolo tutto si muove e ogni cambiamento avviene a vista. Il letto degli amanti diviene la nave con cui parte Enea, e le stesse assi che suggellarono l’amore si trasformano nella sua condanna. Tramite un gruppo di mimi, che sono un po’ come i servi di scena nella commedia dell’arte, gli oggetti si animano e si disfano in continuazione, come se fossero plasmati dalla materia dei sogni. Così facendo ci mostrano quanto ingannevole e illusoria sia la realtà. Niente rimane uguale a se stesso, come accade nella vita, e per esempio un bastone può fungere da spada: il gioco è inesauribile, come nella prospettiva di Shakespeare, la stessa che pare aver generato le streghe di “Dido and Aeneas”. Questi esseri maligni irrompono provocando ogni volta un fermo immagine nel flusso accelerato dell’azione. Hanno la capacità di bloccare il tempo perché riflettono il destino, che tessendo la sua tela rende il tempo una nozione relativa. Nel totale dinamismo dell’esposizione degli eventi, solo i protagonisti, in quanto miti, restano immutabili, poiché ogni mito ha valenze simboliche che trascendono la temporalità. Enea e Didone, più che individui, sono delle essenze: il maschile e il femminile, la ragion di Stato e quella dei sentimenti”.
Il libretto di “Dido and Aeneas” s’ispira al quarto canto dell’“Eneide” di Virgilio. Lo spettacolo fa riferimento a questa fonte?
“Diversamente da quel che avviene in Purcell, il testo di Virgilio fa comparire nella vicenda il figlio di Enea, Ascanio. Io lo metto in scena all’inizio come lo vuole il racconto di Virgilio, cioè tramutato in Eros. Ho voluto reinserirlo perché sono convinta che quel personaggio sia una componente decisiva dell’innamoramento di Didone. Vedere Enea come un padre che s’occupa teneramente del figlio tocca in profondità i suoi sentimenti, così come succede spesso alle donne, e in particolare a una donna che desidera tanto una famiglia come Didone, la quale ci fa comprendere, nel libro quarto dell’“Eneide”, di anelare a un figlio dal suo amato in fuga. E’ Virgilio stesso che le fa dire: “Se almeno da te avessi avuto un figlio…”. In Purcell le streghe mandano a Enea uno spirito col sembiante di Mercurio per dargli l’ordine di partire da Cartagine, facendogli credere che questa sia la volontà di Giove. Il falso messaggero, nello spettacolo, diventa un elfo travestito. L’incontro tra quest’ultimo, che rappresenta il teatro inglese, ed Eros, emblematico del mondo classico, indica l’unione delle due dimensioni, ed è un modo per segnalare come, in quest’opera, la tradizione del teatro inglese si riappropri della cultura classica”.